QUALI SONO LE DOMANDE PIU' FREQUENTI?


Quali sono i benefici per i consumatori dell’uso di vegetali geneticamente modificati?
Le piante geneticamente modificate sono innanzitutto un’innovazione tecnologica, quindi il beneficio di questi nuovi prodotti per il consumatore talvolta non viene immediatamente percepito. La maggior parte delle modifiche genetiche apportate ad alcune piante permette un aumento della produttività, grazie a una migliore adattabilità a condizioni ambientali e climatiche sfavorevoli, alla resistenza a malattie che altrimenti ridurrebbero la resa delle colture, oppure a una maggiore capacità di combattere le piante infestanti. Questi miglioramenti produttivi vanno a vantaggio degli agricoltori, ma hanno effetti positivi anche sul consumatore, al quale viene offerto un prodotto più sano (perché senza malattie e con minori residui di sostanze chimiche) e verosimilmente meno costoso.
Ma le modifiche genetiche possono offrire ai consumatori anche benefici diretti, per esempio quando migliorano il profilo nutrizionale e anche le caratteristiche nutritive del raccolto, come accade a specie in cui si è modificato il contenuto di vitamine, proteine e grassi.

Da dove provengono i geni inseriti negli OGM?
Dal momento che il codice genetico è un linguaggio universale, in ingegneria genetica si possono in teoria usare tutti i geni presenti in natura. In realtà, non tutti gli OGM contengono geni provenienti da un altro organismo: anzi, sempre più spesso le modifiche genetiche si ottengono usando geni che provengono dalla specie a cui appartengono. Il gene viene estratto, modificato in modo da migliorarne o ridurne la funzione, e poi reinserito. Questa specie di ‘terapia genica’ genera quindi un OGM che non contiene nessun gene ‘straniero’.
A proposito di questi ultimi, è necessario qualche chiarimento. Quando si introduce in una pianta un pezzo di DNA (cioè un gene) preso, ad esempio, da un pesce, non ha senso dire che si inserisce un pezzo di animale in un vegetale: una volta portato fuori dall’organismo di origine, questo frammento di DNA è solo una sostanza in grado di esprimere o meno una proteina, proteina che può essere presente in molti altri organismi oltre il pesce.

Le piante che si autoproteggono dai parassiti possono creare nuovi insetti resistenti agli insetticidi?
Il problema della resistenza indotta, cioè della possibilità che microrganismi e animali nocivi divengano capaci di resistere ai prodotti impiegati per distruggerli, è vecchio quasi quanto l’agricoltura e non riguarda quindi solo le varietà geneticamente modificate. Fa parte dell’evoluzione naturale che queste resistenze si sviluppino e, tuttavia, la comparsa di nuovi insetti o di microrganismi più resistenti non significa che questi siano più pericolosi dei precedenti, se non per la necessità di utilizzare nuovi metodi di difesa delle colture.
Lo sviluppo di forme di resistenza è legato alla ‘pressione selettiva’ alla quale è sottoposto l’agente patogeno, cioè il livello di competizione ambientale cui viene sottoposto nel tentativo di salvare le colture. Si teme, per esempio, che la diffusione del mais Bt possa indurre fenomeni di resistenza nella piralide. Questo insetto però non si nutre esclusivamente di mais, ma anche di specie molto diverse come il pomodoro, il melo, il peperone, quindi la ‘pressione selettiva’ non è molto elevata. Per limitarla ulteriormente si adotta una particolare strategia: si coltivano varietà tradizionali di mais, che vengono normalmente attaccate dal parassita, accanto a quelle geneticamente modificate resistenti, per creare delle “zone di rifugio” in cui si possano sviluppare delle popolazioni di insetti che trasmettano alla loro discendenza l’incapacità di resistere alla tossina Bt. La resistenza alla tossina è un carattere geneticamente recessivo. Pertanto, poiché gli insetti resistenti provenienti dai campi di mais geneticamente modificato (mais Bt) si accoppiano con gli individui di questa popolazione che invece non è resistente, i discendenti saranno ancora sensibili alla tossina.

Le piante con proprietà ‘insetticide’ possono colpire anche gli insetti utili?
È stato avanzato il sospetto che le piante di mais OGM possano essere tossiche non solo per gli insetti parassiti, ma anche per quelli benefici (i predatori degli insetti patogeni), per gli insetti impollinatori (come le api) o per le farfalle. Sono in corso numerosi studi, in laboratorio e in campo, per valutare la reale consistenza di questi rischi e, dai risultati ottenuti fino ad ora (anche in sperimentazioni su larga scala), non ci sono ragioni per supporre che gli eventuali effetti negativi siano maggiori rispetto a quelli provocati dall’insetticida Bt, comunemente irrorato anche nell’agricoltura biologica. Quello che è certo è che la produzione della tossina da parte della pianta di mais geneticamente modificata ne permette un’azione localizzata, in quantità ridotte rispetto a quelle irrorate con i trattamenti esterni: in questo modo, l’effetto tossico è limitato a quegli insetti dannosi che si nutrono dei tessuti della pianta, e non si estende agli insetti innocui, che sarebbero invece inevitabilmente colpiti dallo spargimento della tossina mediante irrorazione.

Le piante resistenti agli erbicidi possono trasferire questa caratteristica ad altri vegetali?
Perché questo trasferimento di geni avvenga è necessario che, nel luogo in cui è presente la coltura resistente agli erbicidi, siano presenti piante appartenenti alla stessa specie o a specie molto simili. In questo caso, il polline della pianta transgenica potrebbe trasmettere a queste ultime il gene che le rende tolleranti all’erbicida. Ma se anche esistono specie selvatiche geneticamente vicine alla coltura modificata geneticamente, gli eventuali ibridi che si formerebbero con l’impollinazione incrociata sarebbero poco numerosi e per lo più sterili. La riproduzione di specie simili, come nel caso dell’incrocio tra un cavallo e un asino, dà spesso luogo a organismi incapaci di riprodursi ulteriormente, come avviene appunto nel caso del mulo. Inoltre, l’acquisizione della tolleranza da parte, per esempio, di piante infestanti, non darebbe loro alcun vantaggio, tranne che in presenza dell’erbicida: in questo caso, però, potrebbe causare danni economici alla coltivazione, ma non costituirebbe un pericolo per l’ambiente.

La coltivazione di OGM richiede maggiori quantità di erbicidi?
No, le può invece ridurre. Per dimostrarlo si può ricorre a un esempio. Attualmente gli agricoltori inglesi utilizzano fino a otto diversi erbicidi per combattere le piante infestanti nella coltivazione della barbabietola da zucchero, una delle più difficili e sensibili a questo tipo di problema, con l’uso dei prodotti chimici prima e dopo la germinazione e con modalità di impiego differenti. L’utilizzo delle piante tolleranti al glifosate o al glufosinate riduce l’impiego di erbicidi, in quanto non sono più necessari otto differenti prodotti ma un unico erbicida a largo spettro d’azione e ad elevata ‘compatibilità’ ambientale. La possibilità di effettuare il trattamento con il glifosate o con il glufosinate anche dopo la germinazione della pianta permette inoltre di programmare l’impiego dell’erbicida in modo più razionale, in base alle necessità e all’andamento climatico della stagione, riducendo le quantità totali impiegate.

Una pianta geneticamente modificata può diffondersi nell’ambiente in modo incontrollato?
Non è semplice predire gli effetti a lungo termine dell’introduzione di nuovi organismi vegetali, che siano geneticamente modificati o no. L’agricoltura utilizza abbondantemente specie che non sono presenti naturalmente nel luogo di coltivazione. Per secoli sono state introdotte in Europa specie non indigene, in modo intenzionale o casuale. Basti pensare a mais, soia, patata e pomodoro, che oggi rappresentano gran parte dell’agricoltura europea e che sono state introdotte nel Vecchio Continente da zone molto lontane, come l’America. Se parecchie di queste specie sono innocue o addirittura danno benefici, altre sono definite ‘invasive’, per la capacità di invadere l’ambiente e di degradarlo.
Questo pericolo è inesistente per le specie molto addomesticate, come il mais o la soia, che non sono in grado di sopravvivere senza l’intervento umano, mentre se ne deve tenere conto nel caso di specie più “selvatiche” come può essere la colza. In ogni caso, non c’è nessun motivo per ritenere le piante geneticamente modificate più invasive delle specie naturali coltivate in habitat non nativi.

Che cos’è la contaminazione genetica?
È la possibilità che il polline prodotto da una pianta geneticamente modificata fecondi i fiori di piante vicine.
Questa probabilità cambia a seconda delle specie coltivate, delle specie affini con cui condividono lo stesso habitat e delle caratteristiche di fertilità o di sterilità degli ibridi spontanei che si formano con esse.
Occorre inoltre considerare anche il tipo di riproduzione delle piante, in quanto esistono numerose specie che si autofecondano, per le quali la probabilità di contaminazione genetica è bassissima, e specie che invece si riproducono per fecondazione incrociata, disperdendo il polline nell’ambiente attraverso il vento o usando come “corrieri” gli insetti. Per queste ultime, i fenomeni di impollinazione incrociata sono possibili.
Per limitare la probabilità di contaminazione genetica da parte delle varietà geneticamente modificate, si è sviluppata la tecnologia nota come “terminator” o “a semi suicidi”. In queste piante i semi prodotti dalla fecondazione con il polline transgenico si sviluppano normalmente, ma sono incapaci di germinare e produrre nuove piante, evitando così che possa avvenire la dispersione del gene estraneo introdotto (transgene). Questa tecnologia, richiesta per evitare rischi potenziali di contaminazione genetica, è stata oggetto di forti critiche: si è infatti obiettato che le piante “terminator” possono rappresentare un sistema mediante il quale le industrie sementiere costringono gli agricoltori all’acquisto di nuove sementi ogni anno. Questo tipo di critica, però, non tiene conto del fatto che già molte colture (come mais, girasole e pomodoro) derivano da sementi ibride ‘tradizionali’ che ogni anno devono essere riacquistate per non perdere le caratteristiche di produttività e uniformità.

Gli OGM ridurranno o elimineranno la biodiversità?
Nel corso di oltre tre miliardi di anni, l’evoluzione naturale ha generato l’enorme patrimonio di diversità biologica che popola il nostro pianeta, la ‘biodiversità’ appunto. Questo potenziale genetico è essenziale per assicurare l’adattamento delle specie al progressivo mutamento delle condizioni di vita: la perdita della biodiversità rappresenta quindi una minaccia per la sopravvivenza delle specie viventi sulla Terra.
Lo sviluppo dell’agricoltura, con la progressiva selezione delle sole piante di maggior interesse produttivo, ha effettivamente portato a una riduzione della variabilità genetica e solo di recente si è cominciato a porre la dovuta attenzione alla conservazione della biodiversità esistente, che una volta perduta non è più possibile ricreare.
La possibilità di creare piante geneticamente modificate dipende strettamente dal ‘serbatoio di geni’ a disposizione, rappresentato dalla diversità genetica. Pertanto, le biotecnologie hanno bisogno della preservazione della biodiversità, che viene così salvaguardata, in quanto fonte di geni, invece di essere potenzialmente eliminata perché “obsoleta” o non più commercialmente conveniente. Esistono nel mondo centri specializzati per la conservazione del materiale genetico vegetale (detto germoplasma), come vere e proprie ‘banche delle sementi e dei geni’, che lavorano per evitare la scomparsa di una moltitudine di varietà vegetali non più coltivate perché non comprese nei costosi programmi di miglioramento genetico che hanno portato alla realizzazione delle colture attuali.

Gli alimenti derivati da OGM possono avere effetti negativi sulla salute?
Il timore che gli OGM possano essere dannosi per la salute è in qualche modo collegato a fatti che nulla hanno a che vedere con le modifiche genetiche: per esempio la vicenda dei “polli alla diossina”, la malattia della “mucca pazza” (Bse) o l’epidemia di afta epizootica. Nonostante gli OGM non ne siano in alcun modo coinvolti, questi incidenti hanno provocato un clima generale di insicurezza alimentare. Al punto che anche gli alimenti derivati da organismi modificati geneticamente sono da alcuni considerati pericolosi. Ma non ci sono motivi reali per considerarli tali. Il Dipartimento economico e sociale della FAO, l’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura dell’ONU, ha confermato che tutte le sperimentazioni effettuate non hanno rilevato alcun grado di tossicità degli OGM vegetali in commercio. Negli Stati Uniti, dove questi sono entrati nella catena alimentare diversi anni fa, non si è riscontrato nessun aumento dell’incidenza di malattie tra i consumatori, rispetto ai valori riscontrati in Europa, dove invece le piante geneticamente modificate non sono ancora coltivate. Tutti gli alimenti che fanno parte della nostra dieta quotidiana sono il risultato di secoli di selezione, incroci e ibridazioni compiuti su animali e piante e le biotecnologie non fanno altro che accelerare e rendere più efficiente tale processo.

Consumando vegetali con un gene ‘estraneo’, questo può trasferirsi nell’organismo umano?
La complessità del nostro organismo è tale per cui nulla di estraneo può integrarsi nelle nostre cellule: da sempre l’uomo si alimenta con vegetali e animali senza tuttavia averne assunto alcuna caratteristica, cioè senza averne assimilato i geni. Il DNA e le proteine ‘estranee’ si trovano in tutto ciò che mangiamo, in ogni cellula che compone la frutta, la carne e la verdura, e ogni giorno ne mangiamo notevoli quantità senza che ciò ci ‘modifichi’ minimamente. Ad esempio, nessuno è mai diventato verde dopo aver consumato un piatto di insalata.

Gli OGM possono trasferire all’uomo la resistenza agli antibiotici, indebolendo le sue difese?
Nonostante i vegetali geneticamente modificati di nuova concezione ne siano spesso privi, le sementi geneticamente modificate di prima generazione contengono anche dei geni ‘marcatori’ che permettono ai ricercatori di distinguere le piante trasformate da quelle che non contengono le caratteristiche volute. Il pericolo ipotizzato consiste nel fatto che il gene marcatore possa entrare in uno dei batteri che costituiscono la nostra flora intestinale, superi le difese del microrganismo e si inserisca nel suo genoma. Ebbene tutti questi eventi hanno una probabilità bassissima di avvenire contemporaneamente. È infinitamente più alta la probabilità che l’organismo possa assumere geni antibiotico-resistenti grazie al milione e più di batteri che ingeriamo ogni giorno, con la respirazione o l’alimentazione. Inoltre, il gene estraneo eventualmente trasferito nel batterio intestinale non potrebbe funzionare, a causa della mancanza di un promotore adatto, cioè di quell’interruttore molecolare, nelle cellule, ‘accende’ o ‘spegne’ il funzionamento del gene, e che è diverso tra piante e microrganismi.

Le piante modificate geneticamente possono provocare allergie?
Le allergie a proteine alimentari colpiscono una bassa percentuale della popolazione e gli individui allergici manifestano reazioni a poche proteine, dette allergeni, che appartengono a una ristretta classe di cibi: noci, uova, soia, latte, arachidi, pesce, crostacei, frumento. Alcuni anni fa gli scienziati pensarono di risolvere il problema della mancanza di amminoacidi solforati nella soia modificandola per farle produrre una proteina ricca in zolfo: la proteina 2S, purificata dalla noce brasiliana. I test preliminari mostrarono però che la proteina 2S era proprio uno degli allergeni della noce brasiliana, quindi il progetto fu interrotto sin dalle sue fasi iniziali.
Oggi la FAO e l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) hanno reso ulteriormente sicuri i processi di sviluppo e sperimentazione di nuovi OGM, al fine di escludere ogni possibile allergenicità degli alimenti derivati. Proprio perché sono sottoposte obbligatoriamente a questi controlli, le piante geneticamente modificate sono di fatto più sicure di diversi frutti e verdure esotiche, che sempre più spesso vengono importate dai Paesi tropicali e vendute senza aver prima verificato se possano causare allergie in una popolazione che prima d’ora non se ne era cibata. Se il kiwi, per esempio, prima di essere introdotto in Europa fosse stato sottoposto a tali test, non sarebbe stato commercializzato, proprio a causa della sua elevata allergenicità.

Gli OGM hanno un gusto diverso dalle varietà “tradizionali”?
I cambiamenti che vengono apportati alle piante con le biotecnologie riguardano l’introduzione di caratteristiche vantaggiose per l’impiego agricolo. Proprio perché si tratta di vegetali utilizzati nella catena alimentare, il gusto dei cibi prodotti con ingredienti modificati geneticamente non viene alterato. Per esempio il passato di pomodoro geneticamente modificato venduto in Gran Bretagna vanta un elevato indice di gradimento da parte dei consumatori.

Le piante geneticamente modificate sono ‘innaturali’?
Sono ‘naturali’ esattamente come le altre. Oppure ‘innaturali’ come le altre, se si preferisce. Infatti tutte o quasi le varietà oggi coltivate (per uso alimentare e non) sono state profondamente modificate nel corso di lunghi e laboriosi programmi di miglioramento genetico. La soia coltivata, per esempio, è un prodotto del miglioramento genetico, e non esiste allo stato ’selvatico’: non è infatti possibile ritrovarla in natura, così come non è possibile trovare in natura la fragola coltivata, altro prodotto dell’uomo. Il mais, a sua volta, deriva da un antenato che produceva solo pochi granelli, come anche il frumento. L’intervento dell’uomo ha profondamente alterato sia l’aspetto esteriore di queste piante, sia il loro patrimonio genetico. Le modificazione genetiche sono dunque sempre esistite, sia pure con tecniche convenzionali, rimescolando cioè in modo casuale il DNA delle piante. Queste tecniche possono dare ottimi risultati, ma anche produrre conseguenze imprevedibili. In passato, ad esempio, si sono fuse insieme una cellula di patata e una di pomodoro, allo scopo di ottenere una pianta di pomodoro che producesse anche tuberi di patata: il risultato, denominato topato, possedeva il fusto e le foglie della patata e le radici del pomodoro, cioè l’opposto di ciò che si voleva.
A differenza di queste tecniche, le biotecnologie sono precise, cioè modificano il DNA solo nei caratteri desiderati, evitando così di stravolgere il corredo genetico delle piante.

Si può riconoscere una pianta geneticamente modificata?
Una pianta geneticamente modificata è del tutto simile a una ‘naturale’. Le tecniche di biologia molecolare oggi disponibili permettono di identificare un particolare gene ‘straniero’ inserito in un organismo (cioè un transgene), quando si conosce almeno una porzione del suo DNA. Se non lo si conosce non è possibile identificarlo in alcun modo. Inoltre, le tecniche di controllo possono essere utilizzate abbastanza facilmente se si opera su materiale vegetale ‘fresco’, ad esempio una foglia della pianta, mentre divengono quasi inutili, cioè perdono la capacità di riconoscere la presenza del transgene, se si utilizzano materiali lavorati in cui il DNA è stato distrutto o rimosso. Nel caso si cerchi ad esempio un transgene di cui si conosce la struttura, come nel caso delle varietà oggi coltivate di mais geneticamente modificate, è abbastanza facile trovarlo se lo si cerca nei chicchi, mentre è difficile se lo si cerca nell’olio estratto dai semi stessi.
Uno dei metodi più rapidi e semplici per verificare se un organismo sia geneticamente modificato è la PCR (reazione a catena della polimerasi): si basa sulla capacità di un enzima (tipo particolare di proteina) di copiare ‘a catena’ il DNA, raddoppiandone cioè ogni volta le copie. Il difetto di questa tecnica però è che funziona solo se si conoscono le sequenze iniziali e finali delle lettere che compongono il pezzo di DNA che si intende copiare.

L’elenco degli organismi geneticamente modificati approvati nel mondo è disponibile sul sito: http://www.agbios.com

Le piante geneticamente modificate: A che cosa servono?

La modificazione genetica di piante coltivate può avere diversi scopi. Serve a rendere queste piante resistenti a un parassita o a una malattia; oppure ad aiutarle a sopportare condizioni climatiche difficili, come la siccità o il gelo; o ancora a permettere la loro coltivazione in terreni poco adatti, come quelli troppo ricchi di sali. Una pianta può essere inoltre modificata per migliorare i suoi contenuti nutritivi o per sviluppare caratteristiche utili alla sua trasformazione alimentare: per esempio per aumentare il contenuto di proteine nel frumento per la panificazione, o per ridurre i grassi nell’olio da colza.
Infine, l’introduzione di una informazione genetica ‘nuova’ in una pianta può consentire il suo utilizzo per produrre medicine, come vaccini od ormoni, oppure materiali chimici di uso industriale (per esempio, plastiche biodegradabili).
Quando si modifica geneticamente una pianta, dunque, si vogliono soddisfare le stesse esigenze a cui, da secoli, si tenta di provvedere con i metodi di miglioramento ‘convenzionali’. Gli obiettivi sono gli stessi, cambia solo la tecnica impiegata.

Le tecniche di miglioramento convenzionali
Tradizionalmente, una varietà vegetale viene migliorata attraverso l’incrocio con altre varietà, non di rado selvatiche, che presentano caratteristiche interessanti. Spesso le piante ottenute da questo incrocio vengono nuovamente incrociate con il ‘genitore’, già coltivato per le sue proprietà agronomiche positive (produttività, qualità, resistenza, ecc.) e questo processo viene ripetuto per più generazioni, finché non si ottiene una varietà con le proprietà desiderate.
Per produrre delle varietà migliorate con queste tecniche, è necessario disporre di un’ampia riserva di forme vegetali (coltivate e selvatiche), per poter individuare, tra le diverse specie e varietà, quella capace di trasferire nell’incrocio la caratteristica voluta. I reincroci sono necessari per garantire che la varietà finale contenga questa ma al tempo stesso non perda tutte le altre qualità del tipo “pregiato” già coltivato. Alla fine di questa procedura, la pianta conterrà il gene o i geni responsabili della specifica caratteristica voluta. Assieme a questi, però, avrà ereditato numerosi altri geni, estranei e sconosciuti.

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